Clinical Data Management, negli USA è un’infrastruttura sistemica contro COVID-19

La gestione dei dati clinici si configura come “infrastruttura critica” a livello nazionale nell’emergenza COVID-19. A sottolinearlo è l’Agenzia per la Sicurezza Informatica e delle Infrastrutture (Cybersecurity and Infrastructure Security Agency, CISA) degli Stati Uniti che, nel documento “Guidance on the Essential Critical Infrastructure Workforce: Ensuring Community and National Resilience in COVID-19 Response”, diffuso il 23 marzo, elenca 16 sistemi infrastrutturali fondamentali per la società (vedi immagine). In base a quanto comunicato dalla CISA, che riprende la definizione dell’USA Patriot Act del 2001, il fallimento, o addirittura, la perdita di tali sistemi «avrebbe un impatto debilitante sulla sicurezza, la stabilità economica, la salvaguardia della salute pubblica nazionale, o qualsiasi combinazione di tali questioni».

Tra le infrastrutture critiche rientrano il personale medico e infermieristico, le strutture sanitarie, e i lavoratori che «effettuano ricerche cliniche critiche necessarie per la risposta COVID-19». Ma, allo stesso modo, gli addetti alla gestione di «piani sanitari, fatturazione e informazioni sanitarie» e quanti «svolgono funzioni di sicurezza informatica presso strutture sanitarie». La portata sistemica della gestione del Clinical Data Management e delle tecnologie connesse è sottolineata, dunque, già dal primo punto del documento CISA.

Gli operatori dei data center, infatti, oltre alla condivisione di dati per la realizzazione di trial clinici (vedi l’iniziativa Solidarity dell’OMS) confrontano le misure di identificazione e gestione dei rischi connessi a COVID-19 e le precauzioni da mettere in atto, come procedure per limitare l’infezione, quarantena, routine di decontaminazione, temi relativi alle risorse umane e alla supply chain, alla sicurezza delle forniture di servizi e altre questioni operative.

Linee guida per le giurisdizioni locali

Obiettivo della guida è quello di aiutare i governi, statali e locali, e il settore privato a garantire che i dipendenti essenziali per le operazioni delle infrastrutture critiche possano continuare a lavorare con il minor numero possibile di interruzioni. Per questo motivo i funzionari statali e locali possono utilizzare il framework per aiutare a gestire la risposta all’emergenza Coronavirus, e ad armonizzare le linee guida tra le varie giurisdizioni.

L’elenco delle 16 Critical Infrastructure identifica i lavoratori che conducono una serie di operazioni e servizi essenziali per la continuità delle attività sistemiche, tra cui i centri operativi del personale, la manutenzione e la riparazione delle infrastrutture critiche, i call center operativi, la costruzione di edifici e lo svolgimento di funzioni di gestione. I settori che supportano rappresentano (ma non sono necessariamente limitati a): medicina e sanità, telecomunicazioni, sistemi informatici, difesa, alimentazione e agricoltura, trasporti e logistica, energia, acqua e acque reflue, forze dell’ordine e lavori pubblici.

OMS: Solidarity, il megatrial per la ricerca contro COVID-19

Uno sforzo congiunto, a livello globale, per la ricerca di un trattamento contro il nuovo coronavirus responsabile della pandemia di COVID-19. E un programma dal nome evocativo: Solidarity Trial. È quanto ha posto in campo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) con l’avvio di quattro “megatrial” su altrettanti trattamenti (già utilizzati per curare altre patologie) con l’obiettivo di raccogliere, rapidamente, dati scientifici solidi. Lo studio includerà migliaia di pazienti in decine di Paesi, ed è stato progettato per garantire l’accesso a tutti gli ospedali in prima linea nell’emergenza COVID-19.

A oggi, infatti, la ricerca di nuovi composti sembra una strada corretta ma lunga. Mentre riadattare farmaci utilizzati (anche senza successo) contro altre malattie potrebbe ridurre i tempi. E salvare vite. In particolare, come riporta Science, l’OMS ha deciso di concentrare gli sforzi su quelle che risultano, attualmente, le quattro terapie più promettenti: un composto antivirale sperimentale chiamato remdesivir; i farmaci antimalarici clorochina e idrossiclorochina; una combinazione di due farmaci anti-HIV, il lopinavir e il ritonavir; e la stessa combinazione di lopinavir e ritonavir sommata all’interferone-beta, un messaggero del sistema immunitario che può aiutare a paralizzare i virus.

Come funziona il “megatrial”

Lo schema di Solidarity prevede una serie di step che coinvolgono direttamente i casi confermati di COVID-19, considerati idonei al trial, e i medici curanti. I pazienti sono tenuti a firmare un modulo di consenso informato, che viene scansionato e inviato all’OMS, a quel punto il medico può inserire in un’apposita piattaforma (creata sempre dall’OMS) sia i dati del paziente (includendo eventuali altre patologie) sia i farmaci disponibili in quel momento presso la struttura clinica. La piattaforma assocerà il soggetto in cura a uno dei farmaci in maniera random. Dopo di che, i successivi dati riguarderanno: durata della degenza, richiesta o meno di ossigeno o ventilazione, registrazione del giorno in cui il paziente è stato dimesso o, nel peggiore dei casi, è deceduto.
Il modello non è in double-blind (in italiano “doppio cieco”), lo standard della ricerca medica in cui né il paziente né il medico curante sono a conoscenza del farmaco utilizzato, ed esiste il rischio “effetto placebo”. Ma l’OMS dichiara la necessità di bilanciare il rigore scientifico nella raccolta di dati clinici con la velocità.

I 4 farmaci

Come anticipato i farmaci utilizzati nel megatrial sono stati già sperimentati in altre occasioni. Il remdesivir, sviluppato da Gilead Sciences, blocca la replicazione virale inibendo un enzima chiave, l’RNA-dependent RNA polymerase. Il medicinale è stato utilizzato lo scorso anno per contrastare un’epidemia di ebola nella Repubblica Democratica del Congo, insieme ad altri tre trattamenti. Non ha mostrato alcun effetto. Ma l’enzima che prende di mira è simile in altri virus, e nel 2017 i ricercatori dell’Università del North Carolina, hanno dimostrato in provetta e in studi su animali che il farmaco può inibire i coronavirus che causano la SARS e la MERS.

I due composti clorochina e idrossiclorochina, utilizzati nella cura della malaria, sono stati impiegati in più di 20 studi COVID-19 in Cina ma l’OMS ha osservato che i ricercatori cinesi, pur affermando di aver trattato oltre 100 pazienti, non hanno condiviso i risultati. Anche i ricercatori francesi hanno trattato oltre 20 pazienti, concludendo che il farmaco ha ridotto significativamente la carica virale nei tamponi nasali. Ma anche in questo caso non si è trattato di uno studio controllato randomizzato e non ha riportato risultati clinici come i decessi. Questo ha portato l’Organizzazione mondiale della sanità a escludere, inizialmente, i due farmaci, ma l’elevato interesse in molti Paesi (tra cui gli Usa) ha suscitato «la necessità di esaminare le prove emergenti per una decisione informata sul ruolo potenziale» dei composti.

Lo studio sulla combinazione di ritonavir e lopinavir, i due farmaci utilizzati negli Stati Uniti nel 2000 per il trattamento delle infezioni da HIV è rientrato nel megatrial, ma già le prime sperimentazioni cinesi non ha dato risultati incoraggianti nel trattamento di COVID-19. I due medicinali sono utilizzati insieme in quanto il lopinavir ha il compito di inibire la proteasi dell’HIV, un importante enzima che scinde una lunga catena proteica in peptidi durante l’assemblaggio di nuovi virus. Ma poiché le proteasi del nostro corpo scompongono rapidamente il lopinavir, questo viene somministrato con bassi livelli di ritonavir, un altro inibitore delle proteasi, che permette al lopinavir di persistere più a lungo. La combinazione può inibire la proteasi anche di altri virus, in particolare i coronavirus. Come detto non si hanno risultati positivi (un quinto dei 199 pazienti trattati in Cina sono morti) ma il sospetto è che il trattamento sia stato somministrato troppo tardi.

Un altro tentativo sarà effettuato con gli stessi ritonavir e lopinavir a cui si assocerà la somministrazione di inteferone beta, una molecola coinvolta nella regolazione dell’infiammazione nell’organismo, che ha anche mostrato un effetto nelle infezioni da MERS.

Tecnologie di condivisione dati, nuova frontiera nell’emergenza sanitaria

La necessità di elaborare approcci innovativi nella gestione delle emergenze sanitarie getta nuova luce sui sistemi di condivisione dei dati. E, allo stesso tempo, sulle possibili partnership tra settore pubblico e privato che diano l’avvio a uno scambio virtuoso finalizzato al raggiungimento di obiettivi comuni. Resta ferma certo, al di là dell’urgenza determinata dall’attuale pandemia COVID-19, la necessità di determinare regole d’uso e di accesso prima di condividere un asset importante come il dato clinico.

È in quest’ottica che si può leggere, tra le altre notizie, quella che ha visto protagonista Huawei Italia, braccio italiano del colosso cinese delle ICT (Information and Communication Technology). Il presidente di Huawei Italia, Luigi De Vecchis, in un’intervista a DigitEconomy.24, il report di Radiocor e Luiss Business School, ha dichiarato che la società ha offerto alle strutture ospedaliere del nostro Paese la possibilità di operare in cloud e comunicare con le unità di crisi in tempo reale. Non solo: ha aperto alla possibilità di collegare i «centri di eccellenza italiani con gli ospedali cinesi di Wuhan che hanno già sperimentato sul campo il contenimento dell’epidemia». Il tutto per poter «scambiare informazioni e dati» e collaborare nell’emergenza.

In un’Ansa diffusa il 17 marzo, inoltre, si legge che la società, oltre ad aver donato mille tute protettive ad alcuni ospedali di Milano (e si attendono circa 200mila mascherine di tipo FFP2 dalla Cina), punta a sostenere il Belpaese nella lotta contro il Sars-Cov-2 con dispositivi e connettività di rete ad altre prestazioni, al fine di «facilitare lo scambio di informazioni tra i team sanitari italiani e cinesi» attraverso la sua piattaforma cloud Welink.

Non soltanto, dunque, un privato si mette a disposizione del pubblico. Ma un’azienda cinese si mette a disposizione dell’Italia e lo fa proponendo un progetto in cui le strutture ospedaliere pubbliche e private dei due Paesi comunicano e si scambiano dati.

La partita contro COVID-19 si gioca anche sui trial clinici

Il bollettino del contagio da COVID-19 è in continuo aggiornamento. E mentre gli ospedali, i medici e il personale sanitario fanno fronte all’emergenza sanitaria, in tutto il mondo i ricercatori sono impegnati nella ricerca di una terapia efficace e nella sperimentazione di un vaccino. Le tempistiche per il vaccino sono già dettate dalle autorità regolatorie e richiederanno dai 12 ai 18 mesi. Mentre nel caso delle soluzioni terapeutiche i tempi si possono ridurre. Da qui la corsa alla sperimentazione clinica di società di ricerca pubbliche e private, case farmaceutiche e startup.

La Cina, Paese epicentro dell’epidemia che, come noto, dalla provincia dello Hubei si è diffusa nel resto del mondo, è stata anche la prima ad avviare trial clinici su nuovi trattamenti potenziali. Come comunicato anche dal nostro Istituto Superiore di Sanità (ISS), già il 18 febbraio il Dragone aveva a disposizione i primi, incoraggianti, risultati della sperimentazione clinica con clorochina, avviata nelle settimane precedenti dal Chinese Clinical Trial Registry. «La clorochina è un antimalarico dimostratosi efficace in vitro e su modelli animali contro numerosi virus tra cui il coronavirus della SARS – si legge sul sito dell’ISS –. L’idea di usare la clorochina contro il coronavirus della SARS fu lanciata nel 2003 da Andrea Savarino, ora ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità».

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lo scorso 20 febbraio ha dichiarato che i primi risultati sui trial clinici di procedure terapeutiche contro il corona virus erano attesi «entro tre settimane», in questi giorni, dunque, potrebbero esserci nuovi sviluppi dai tentativi messi in campo per contrastare la diffusione del SARS-CoV-2 virus responsabile dell’attuale epidemia di COVID-19, dai farmaci utilizzati nelle terapie dell’HIV a quelli già in fase di sviluppo per contrastare il virus Ebola. Ma anche, come detto, farmaci, antimalarici, estratti vegetali e studi che mirano a testare gli effetti preventivi della medicina tradizionale cinese. L’OMS e l’intera comunità scientifica insistono nel sottolineare come il lavoro di ricerca debba essere portato avanti con rigore e scrupolo perché soltanto i protocolli aderenti alle norme di buona pratica clinica porteranno a soluzioni concrete.

Intanto anche negli Stati Uniti, le aziende che stanno avviando lo sviluppo di trial clinici per terapie e vaccini hanno ricevuto finanziamenti da due organizzazioni: la Biomedical Advanced Research and Development Authority (BARDA), che è una divisione del Department of Health and Human Services, e il National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), una divisione dei National Institutes of Health. Alcune aziende hanno ricevuto finanziamenti dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione globale con sede a Oslo. Altre aziende stanno finanziando sperimentazioni da sole o attraverso partnership con altre società del settore delle scienze della vita.

La marcia dei Wearable Device negli studi sulla salute del cuore

Arriva da oltreoceano uno sviluppo interessante nella ricerca clinica in ambito cardiologico attraverso l’utilizzo dei wearable device, ossia i device “indossabili”. Janssen, divisione farmaceutica di Johnson & Johnson, ha annunciato l’avvio di uno studio clinico, l’Heartline Study, in collaborazione con Apple, per valutare le funzionalità cardiache gestite attraverso le app dell’Apple Watch. Il team ha collaborato con la società di Cupertino per progettare congiuntamente lo studio con l’app Heartline Study. Obiettivo dello studio è quello di ridurre i tempi di rilevazione della fibrillazione atriale, permettendo l’identificazione precoce di scompensi e complicanze cardiovascolari come l’ictus.

I partecipanti all’Heartline Study, che vede anche la collaborazione della società Evidation Health, devono rispondere a una serie di requisiti: essere cittadini statunitensi oltre i 65 anni di età, possedere un’assicurazione Medicare (l’assicurazione medica del governo Usa rivolta agli over 65) e un modello di iPhone corrispondente al 6s o superiore. In particolare, i partecipanti allo studio devono accettare di fornire l’accesso ai dati delle loro prestazioni Medicare.

Un ingresso nella privacy da parte di due aziende private fondamentale ai fini della ricerca, ma che porta alla luce una tendenza in atto. Il settore dei wearable ha acquisito, infatti, sempre maggiore importanza nei trial clinici e nella digital healthcare, e questa evoluzione in Europa si trova a fare i conti con il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) che è molto stringente. Per questo motivo gli studi di questo tipo devono essere svolti con sistemi validati e in ottemperanza a rigide procedure legate alla protezione della privacy, che richiedono un consenso informato da fornire al paziente per la raccolta dei dati clinici personali.

I soggetti selezionati per lo studio di Janssen e Apple saranno suddivisi in due gruppi. Un gruppo parteciperà utilizzando soltanto l’applicazione Heartline Study sul proprio iPhone, mentre l’altro sarà dotato anche di un Apple Watch per l’utilizzo dell’applicazione ECG (elettrocardiogramma) e la funzione di notifica del ritmo irregolare. La ricerca avrà una durata di tre anni con due anni di impegno attivo – in cui i partecipanti riceveranno tramite l’app, consigli e sondaggi sulla salute del cuore –, seguiti da un anno di raccolta dati aggiuntivi.

Quello condotto dall’Heartline Study sarà un passaggio importante nella ricerca sulle cause e la diagnosi precoce della fibrillazione atriale che, nonostante sia una delle principali cause di ictus, spesso non presenta sintomi, da qui la difficoltà nel diagnosticarla. Secondo i dati forniti da Janssen oltre 33 milioni di persone in tutto il mondo (e sei milioni di cittadini Usa) convivono con questa patologia, di questi, il 30% scopre di esserne afflitto soltanto dopo che si è verificato un evento cardiovascolare grave, come un ictus. Secondo i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, la fibrillazione atriale provoca 158mila decessi e 454mila ricoveri ospedalieri ogni anno.